Da Taranto a Milano, da poliziotto a malavitoso. “Ti sparo” (Cicorivolta Edizioni) colpisce con la forza di un proiettile: per la storia, le circostanze, il linguaggio diretto. Quello non di uno scrittore ma di un poliziotto, Celeste Bruno, commissario di polizia di lungo corso, a Milano dal 1977, una delle memorie storiche della questura meneghina. Bruno racconta senza mezzi termini la discesa all’inferno di un giovane poliziotto, Giorgio Tocci, partito dalla Puglia, arrivato a Milano negli anni di piombo, abile a procurarsi confidenze (dote tra le più importanti di un investigatore), troppo spregiudicato per non varcare il confine che ogni giorno separa chi deve garantire la legalità, spesso con sacrificio, e chi, spesso con grande profitto, vive alle spalle della legge: due mondi che nelle loro conseguenze più estreme finiscono talvolta per sovrapporsi. Creando una miscela esplosiva. Così accadde a Giorgio Tocci, una vita iniziata in polizia e proseguita al soldo della criminalità organizzata, killer al servizio dei clan, fino al pentimento e al ruolo di “collaboratore di giustizia”. La forza del libro – che è anche una mappa mappa della criminalità organizzata nella Milano degli anni ’80 – sta soprattutto nella prospettiva dell’autore, nel racconto sincero e disincantato, molto poco letterario e affatto compiaciuto, ma sempre visceralmente umano. Perchè Celeste Bruno ne ha viste tante, perché non è un giornalista o uno scrittore ma “uno sbirro” rimasto fermamente ‘dall’altra parte’, perché sa leggere atti processuali e verbali e conosce da dentro cosa significa approcciare un confidente, coltivare una fonte, scivolare lungo l’argine che separa dovere e colpa cercando di non cadere. Bruno racconta di “codici”, regole di comportamento, quelle di chi fa il poliziotto e di chi fa la malavita; racconta di come gli “ambienti sani” possano corrompere se qualcuno non ti aiuta, racconta infine – in prima persona – una storia di un uomo con troppe colpe che alla fine della sua lunga parabola criminale (lunga oltre un decennio), ammette dinnanzi al suo accusatore: “Vedevo un giovane magistrato che incarnava in modo straordinariamente efficace la dignità di chi lavorava per le istituzioni e l’affermazione della legge. Le sue parole zittirono letteralmente quell’avvocato, insinuante come un serpente, ormai accasciato a capo chino sul suo banco. Quella scena simboleggiava la vittoria dello Stato”.
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