Mohammed ha sfilato con i denti la coperta di lana, ne ha fatto una treccia sufficientemente lunga per costruirsi un cappio e suicidarsi. E’ una delle storie dal carcere che Arianna Giunti racconta nell’ebook “La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane”, edito da Informant. Un viaggio nelle criticità del carcere dove i detenuti hanno a disposizione meno di tre metri quadri ciascuno per cella e resistono dal passato retaggi che assomigliano a incubi. Ne e’ un esempio, tanto potente quanto sconosciuto, la cella liscia, simbolo di una vita carceraria che fatica a scalfire l’opinione pubblica e soprattutto chi dovrebbe amministrarla secondo principi di umanità. Quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento dei penitenziari italiani, racconta Giunti nel suo libro, non rinunciano a un luogo di punizione e aberrazione. La cella liscia è “completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale”. Poche parole che tratteggiano pochi metri quadrati, nascosti a tutti, dove, scrive l’autrice, si pratica di fatto, ancora, la tortura: ci sono passati in tanti, come Mohammed. La cella liscia, però, è solo il punto di partenza di un viaggio nella normalità anormale delle carceri italiane dove, pur finite nel mirino delle varie corti per i diritti dell’uomo, la realtà sembra immobile e i casi di morti (al limite sospette) e suicidi in carcere – che l’autrice ripercorre come un rosario di ingiustizie – sono solo la punta dell’iceberg di una realtà nascosta come il suo luogo più lugubre, quella cella dove “la punizione consiste nel provocare l’annichilimento e l’annientamento psicologico del detenuto, che viene lasciato solo, completamente nudo e al buio”. Testimonianze delle vittime: “Ci lasciavano nudi e al freddo in una cella senza finestre. Ci nutrivano solo a pane e acqua. Entravano nelle nostre celle dopo le dieci di sera. Ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Quando sentivo il rumore degli anfibi io mi rannicchiavo e aspettavo la raffica. Mi chiudevo come un riccio, sperando che smettessero, ma loro continuavano, puntuali, ogni notte”; le voci, intercettate, di chi dovrebbe assicurare i diritti dei detenuti: “Ma che uomo sei… devi avere pure le palle… lo devi picchiare… lo becchi da solo e lo picchi… Io la maggior parte di quelli che ho picchiato li ho picchiati da solo…”, bastano a far capire che dietro le porte chiuse e vigilate si nascondono le nostre ‘Abu Ghraib’ che, a giudicare dai racconti del libro, rimangono appiccicate addosso anche quando la condanna e’ finita. Perché non solo restano i segni fisici e psicologici della detenzione, ma anche un reinserimento sempre difficile con il “marchio” del carcere impresso a fuoco sulla pelle di chi lo ha vissuto.
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