La forza del genere noir si sente tutta in libri come questo, dove la cronaca si fonde con la finzione sullo sfondo di una città e di protagonisti di un tempo passato: crudele, duro, ferito. Una città rossa con le sue debolezze e le sue insidie, che cambia, muta e si approssima a quello che diventerà. E alla fine, davvero, a tutti, non resta che “il tempo di morire”.
Paolo Roversi, autore ormai solido della scena letteraria milanese e non solo, si tuffa a capofitto nella Milano degli anni Settanta, riprende il filo del precedente ‘Milano criminale’ e con ‘Solo il tempo di morire’ (Marsilio) compie un altro passo verso l’oggi, travestendo da romanzo una storia che affonda nella toponomastica meneghina e nel richiamo alla ‘cronaca vera’ le sue radici. E’ un libro criminale, perché i protagonisti sono ‘guardie e ladri’, ciascuno col proprio scopo, la propria personalissima etica, le proprie divoranti ambizioni. Quelle che portano le nuove bande criminali e i loro capi a scontrarsi per il controllo di una città in cambiamento, con la nuova ‘mala’ così diversa e arrembante rispetto a quella ‘ligera’ del decennio precedente. I gentiluomini cedono il passo, lo spazio ora è di chi le armi non solo le impugna ma preme il grilletto. Non potrebbe essere altrimenti in una città cupa – quella degli anni di piombo tra il 1972 e il 1984 – e lampi di luce provengono solo dalla canna della pistola e dalle strisce di cocaina, il nuovo ‘eldorado’ dello sballo e degli affari criminali. Gli ingredienti per una storia avvincente ci sono quindi tutti: delitti, night, droga, misfatti, giudici, poliziotti. Quel che Roversi sa fare è metterli in fila, pagina dopo pagina, mettere su un disco e farli ballare; d’altronde, si legge nel prologo in prima persona di uno dei protagonisti “quando sento l’odore del sangue non posso trattenermi, devo ballare”. Non parla l’autore in prima persona, ma a fine corsa la sensazione è ‘come se’.