Li diamo da bambini, quando impariamo le parole, li diamo da adulti, anche, e non sempre sono quelli giusti o non sempre bastano per definire la cosa o l’emozione che dovrebbero rappresentare. Sono “I nomi che diamo alle cose”, da piccoli e da grandi, che a volte fanno la differenza tra mondo dell’infanzia e mondo adulto, non per forza il primo è piccolo e l’altro è grande, ma è tra queste due realtà coesistenti che gioca il romanzo di Beatrice Masini. “I nomi che diamo alle cose”, il titolo, pubblicato da Bompiani: è il suo secondo libro per adulti, ma ne ha scritti molti altri per bambini: anche nella sua biografia torna il binomio, la contrapposizione-unione di due mondi, immancabile, a questo punto, anche nella trama.
Protagonista del libro è Anna, giornalista ed editor, scrive le storie degli altri, dedicandosi ad esse nel suo presente di 40enne di città dal passato doloroso e emotivamente irrisolto, con una trasferta sul lago di Garda. Imprevista ma ben accolta e, così si rivelerà, forunata. La ragione per abbandonare la Milano in cui Anna è intrappolata in una storia con un uomo sposato, capitolo dopo capitolo sempre più irrisolvibile e inconcludente, tanto da quasi scomparire, è una morte. Non una qualsiasi, ma la morte di Irene, celebrata scrittrice per bambini, madre cattiva o forse solo una cattiva madre. Andrebbe chiesto al figlio, lui è rimasto e Anna lo incontra, chiamata sulle rive venete del Lago, quando l’eccentrica autrice defunta le lascia in eredità una piccola casa che è poi la portineria della sua proprietà. Inizia così una nuova vita, apparentemente e inizialmente neanche troppo desiderata dalla protagonista che quasi si oppone al cliché del “mollo tutto e cambio vita”. Sembrerebbe molto restia, incerta, ben poco coinvolta dalla nuova realtà un cui i legami, meno immediati ed evidenti, sono necessari e veri. Sono i “legami” che si possono così chiamare senza aver timore dei “nomi che diamo alle cose”, rapporti che, finché era a Milano, “mai e poi mai”. Con un capomastro gentile e devoto, con il figlio irrequieto di Irene, con uno strano e falso sceicco, con le figlie quasi folletto di una coppia di contadini stranieri. Con la dama di compagnia dell’autrice. Un personaggio, questa anziana genuina, che ha storie sue ma non le sa scrivere, al contrario di Anna che ascolta e racconta quelle di altri, stentando fino all’ultimo a tracciare la propria, di storia. Di strada. Quasi a non volerla mettere nero su bianco, a non voler dare un nome, a quanto sta vivendo. Non sono affatto da trascurare, “I nomi che diamo alle cose”.