La verità, è poi così importante da scoprire? “La Fioraia del Giambellino” forse si è posta questa domanda, di certo, come libro, la pone implicitamente ai suoi lettori “fingendo” di proporre loro “solo” un giallo ambientato in una Milano estiva, calda, vuota e silenziosa in un modo che oggi suona quasi sospetto.
Rosa Terruzzi pubblica con Sonzogno il suo secondo romanzo che segue “La sposa scomparsa” senza risultarne dipendente. Ritorna nel vecchio casello ferroviario in compagnia e in balia di un trio di donne ben assortito, ciascuna appassionata a modo proprio di misteri e cronaca nera.
La fioraia del Giambellino, che dà il titolo al volume, è Libera, fioraia davvero, forse innamorata di uno dei due uomini che frequenta, certo innamorata della ricerca della verità anche se non sempre sicura di volerla conoscere davvero. Sua figlia, la poliziotta Vittoria, ha un carattere squadrato, è l’unica con un po’ di ragione in corpo, forse troppa, ma è perdonabile il suo atteggiamento andando a conoscere la nonna Iole, il personaggio più fuori dalle righe del romanzo ma che chiude il cerchio e serve a far girare la storia.
Eccentrica insegnante di yoga, femminista, imprevedibile e spesso irritante, Iole crea diversivi, mescola le carte, mentre Vittoria, Libera e le sue clienti, cercano di sistemarle, sperando di scoprire la verità. Come nel caso di Manuela, altra donna sotto i riflettori, nel romanzo, e che sta andando all’altare senza riuscire a sapere dalla madre chi è suo padre e senza potergli chiedere di accompagnarla come da tradizione. Libera vuole aiutarla, oltre che con il bouquet, anche come detective.
Se il bouquet non è mai cosa banale, nemmeno le ricerche di un uomo senza la minima collaborazione della madre di Manuela lo sono, ma la domanda a cui poi ci si trova a rispondere non è quella posta inizialmente – “chi è il padre di Manuela?”- ma tutta un’altra: “Vogliamo davvero sapere sempre tutta la verità?”.
di Marta Abbà